a c. di Donatella Marcesini
Pisa, Pacini, 2014
Pisa, 23/5/2014 – S.Martino
Questo piccolo ma interessante volume, intitolato Maria Schiratti Toniolo e la Casa della Giovane di Pisa, pubblicato con il patrocinio dell’ Associazione Cattolica Internazionale al Servizio della Giovane (con il contributo della Fondazione Opera Giuseppe Toniolo) e curato da Donatella Marcesini si apre con una breve presentazione in cui l’arcivescovo di Pisa, mons. Giovanni Paolo Benotto, mette in evidenza l’importanza dei testi qui radunati: si tratta infatti di alcuni documenti inediti, trovati recentemente nella “Casa famiglia” di Pisa, che gettano nuova luce sulle origini della sezione pisana di questa associazione e sulla personalità e l’opera di colei che è nota soprattutto per essere stata la moglie del beato Giuseppe Toniolo. In realtà Maria Schiratti, nata il 10 aprile 1852 a Pieve di Soligo e morta a Pisa il 9 gennaio 1929, è una figura di grande rilievo, a tutto tondo, non solo per il ruolo, certamente fondamentale, che ha avuto nella vita dell’insigne marito – un ruolo di sicuro ben più rilevante di quello che la storiografia tonioliana le ha finora riconosciuto – ma anche per l’impegno che ha profuso nelle numerose iniziative caritative e assistenziali a cui si è dedicata, in primo luogo quella della “Casa della Giovane” di Pisa, di cui è sata fondatrice nel 1908 e presidentessa per ben vent’anni, fino al 1928.
Segue una seconda Presentazione, in cui Emma Cavallaro, Presidente Nazionale dell’Associazione Cattolica internazionale al servizio della Giovane (ACISJF), dopo una breve introduzione alla storia, all’attività e alle “ragioni spirituali” dell’associazione, sottolinea l’interesse dell’iniziativa di dare alle stampe questi testi di Maria Schiratti con queste parole:
“La sua – scrive la Cavallaro – e anche quella della figlia Maria e dello stesso beato Giuseppe è stata una vera rivoluzione culturale per il tempo in cui si è realizzata… e i testi autografi di Maria Schiratti Toniolo ritrovati … sono un grande dono non solo per l’Associazione di Pisa, ma per tutta la Federazione nazionale. Un dono che ci riporta la voce, il pensiero e le preoccupazioni di una grande presidente, una grande donna che visse e condivise l’opera del beato Giuseppe Toniolo tanto da far scrivere a Elena De Persico: «…senza di Lei – citazione nella citazione, che però mi preme mettere in evidenza – probabilmente l’Italia cattolica non avrebbe avuto Giuseppe Toniolo»”.
E su questo, personalmente, non ho alcun dubbio.
Dopo un essenziale Profilo biografico di Maria Schiratti, una ulteriore Introduzione descrive e contestualizza gli scritti qui editi per la prima volta. Si tratta innanzitutto di quattro relazioni manoscritte di Maria Schiratti, di cui una sola datata (ma tutte databili). Nello stesso baule, inoltre, sono state trovate e qui pubblicate:
1. la “fotocopia” – così è scritto, in realtà, penso che si tratti di una copia a stampa – dello statuto dell’associazione, approvato il 31 gennaio 1904 e del regolamento della Società del Mutuo soccorso;
2. un brogliaccio con riportata l’attività di accoglienza della casa famiglia nell’anno 1920
3. una lettera della Schiratti inviata all’Opera Pia “Orfanelle di P. Agostino”
4. una lettera scritta da Madre Regina Tosterolo (tutti questi riprodotti in anastatica all’interno del volume)
5. una relazione stampata in occasione dei 25 anni dell’opera, e infine
6. la copia di una relazione, che una annotazione marginale indica come “probabilmente scritta da M. Toniolo”.
Concludono il volume una Storia della Casa di Accoglienza di Pisa dal 1127 ai nostri giorni e un breve Epilogo conclusivo della presidente della sezione pisana dell’Associazione, Francesca Terreni.
Nella prima relazione, datata 14 marzo 1908, viene presentata la Società di Mutuo soccorso per le operaie di Pisa, nata allo scopo di garantire un supporto economico a quelle donne che si fossero trovate in stato di necessità, per malattia o gravidanza.
Nella seconda relazione, non datata, ma databile al 1913, Maria Schiratti affronta il tema della cosiddetta “tratta delle bianche”, cercando di individuarne le cause prime e denunciandone i responsabili.
La terza relazione, scritta nel 1922, subito dopo la morte di papa Benedetto XV – e per questo esprime la preoccupazione di rimanere prive del sostegno dell’arcivescovo di Pisa cardinale Pietro Maffi, possibile candidato alla successione – ha come tema principale quello delle colonie marine e dell’organizzazione delle vacanze estive con funzione elioterapica per i bambini e per le giovani operaie. Un primo risultato fu la costruzione di una piccola colonia a Marina di Pisa.
Di poco posteriore la quarta relazione, scritta dopo l’XI settimana sociale di Torino tenutasi dal 14 al 19 dicembre 1924, quindi nel 1925. Riprendendo gli studi del marito, la Schiratti invita a un “salto di qualità”: per aiutare davvero le giovani donne, soprattutto le operaie che si trovano in difficoltà, avverte che è necessario capire le cause sociali e politiche che tali difficoltà hanno determinato. Un atteggiamento meramente assistenziale, infatti, non esaurisce le responsabilità dei cristiani: prima di tutto è necessario difendere i più deboli partendo dalla riscoperta e dalla valutazione dei loro diritti, intervenendo in modo deciso per colmare le ingiustizie e le prevaricazioni dei potenti sui deboli.
L’ultima relazione risale al 30 gennaio 1928, un anno esatto dalla sua morte e 20 anni dopo la fondazione dell’opera. Nel ricordarne la storia, le iniziative, i successi e i fallimenti, Maria Schiratti analizza brevemente anche i profondi cambiamenti sociali avvenuti nel frattempo, con grande lucidità e concretezza.
Il profilo umano e spirituale che scaturisce da queste pagine è indubbiamente quello di una donna che non si è limitata a vivere nelle retrovie le grandi battaglie e l’impegno sociale, culturale ed ecclesiale del marito, ma ha seguito un suo percorso personale, indipendente e vincolato, autonomo e subordinato nello stesso tempo. Un esempio di vita matrimoniale matura, autenticamente cristiana: moglie e marito legati da una comunione profonda ma senza confondersi, senza perdere l’identità e la personalità di ciascuno, cooperando ma lavorando ognuno per proprio conto, nei propri ambiti, secondo la propria natura, ma per gli stessi obbiettivi: essere testimoni del Vangelo, testimoni autentici, in grado cioè di illustrare, di illuminare con le opere la loro fede nel Cristo risorto annunciata con le opere stesse, oltre che con le parole; farsi prossimi per gli altri, specie per i più deboli e, infine, contribuire, con un impegno attivo nella società, alla costruzione del regno di Dio.
I coniugi Toniolo sono testimoni di una spiritualità intensamente e profondamente evangelica. Entrambi erano convinti che i cristiani devono dimostrare, con la vita e con le opere, la realtà della propria fede, incidendo nella società in cui si trovavano a vivere, guidati dalla Parola di Dio, dalla preghiera, dalla retta coscienza. In altre parole da quello spirito profetico che è il carisma che lo Spirito Santo da a chiunque si mette in ascolto. Lotta e contemplazione, fede e opere sono sempre, indissolubilmente legate. Il cristianesimo ha due dimensioni, una verticale e una orizzontale e separarle è impossibile, come scriveva l’apostolo Giacomo: “mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc. 2,18).
I coniugi Toniolo incarnano e rappresentano un nuovo modello di santità, che sarà quello del futuro: quello del laico non per caso ma per scelta, che ha coscienza di essere tale e che concepisce la propria vita, il lavoro, lo studio, il matrimonio come una via per la santificazione personale e per la costruzione del Regno di Dio.
Leggendo gli scritti, ho visto in Maria Schiratti una donna caratterizzata da una fede matura, da una buona conoscenza delle Scritture e anche degli scritti dei Padri, una donna che partendo dalla preghiera e anche facendo tesoro dei risultati del lavoro di studioso del marito, ha cercato di mettersi all’opera per cambiare la realtà del suo tempo, in una prospettiva particolare: quella del mondo femminile, delle operaie, delle migranti, delle studentesse, delle donne che la società del tempo aveva reso marginali, pur avendo bisogno di loro, del loro lavoro, della loro fatica, spesso dopo averle sfruttate in modo ignobile.
Maria è consapevole che la strada intrapresa da lei e da altre come lei era controcorrente, irta di ostacoli e di difficoltà, ma sa anche che il suo non è un progetto personale, un programma politico, bensì una vocazione, cioè un incarico ricevuto da Dio. Maria sa di essere uno strumento nelle mani di Dio e non ha paura di fallire, perché si affida alla Provvidenza, se ne rende strumento obbediente e docile. Di più: lascia che la Provvidenza si serva di lei per costruire il Regno di Dio già in questo mondo. Maria sa di non fare i propri interessi, ma quelli dei poveri, dei deboli, cioè quelli di Dio. E Dio sa difendere ciò che è suo: questo significa capire davvero il senso delle parole di Gesù: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”
Maria Schiratti non ha avuto paura di alzare la sua voce contro le ingiustizie, contro i soprusi, contro i forti che sfruttano i deboli. Questo vuol dire essere profeti: non indovinare il futuro, ma interpretare il presente, giudicare la società, le istituzioni, i politici. Essere profeti significa essere la voce di Dio nel mondo. E a volte bisogna urlare, come Geremia, come Amos.
Nella presentazione Emma Cavallaro ha scritto, in relazione all’impegno sociale di Maria Schiratti: “E’ essenziale … ritrovare questo coraggio e questa profezia e dobbiamo saperli vivere in questo nostro tempo …. utilizzando gli strumenti culturali disponibili e inventando nuovi servizi secondo i nuovi bisogni”.
E questa è l’altra chiave di lettura degli scritti di Maria Schiratti, di fronte ai quali dobbiamo chiederci: perché rileggere questi scritti a oltre un secolo di distanza? Come leggerli e come farne tesoro? Ci sono tre passaggi da fare: contestualizzazione, traduzione, valutazione.
Contestualizzazione significa inserire uno scritto nel tempo in cui fu pensato, metterlo in relazione con la società e con la cultura del tempo. Sembra facile, ma non lo è affatto. Ci vuole una guida esperta. Purtroppo abbiamo la tendenza a far da soli, ma è un errore: spesso si crede di capire e in realtà si fraintende.
Secondo passaggio: traduzione. Si potrebbe dire: ma sono scritti in italiano, cosa c’è da tradurre? Ebbene: tradurre, vuol dire trasportare da un luogo a un altro, da un tempo a un altro tempo. Quindi si tratta di reinterpretare il linguaggio e l’insegnamento di Maria Schiratti alla luce dei mutamenti linguistici, sociali, culturali avvenuti dall’inizio del secolo XX all’inizio del XXI. Sono cambiamenti straordinari, non c’è bisogno che li ricordi. Basta pensare al Concilio Vaticano II. Cambiamenti che hanno trasformato perfino il linguaggio, non necessariamente in senso positivo: concetti come famiglia, vita, accoglienza, giustizia sociale, libertà, educazione, maternità non sono più gli stessi di un secolo fa, che ci piaccia o no.
Chi opera nel settore sociale sa bene quali sono le difficoltà che si incontrano nel comunicare certi concetti, certi valori al mondo che ci circonda. Ma se vogliamo davvero comunicare dobbiamo accordarci sul linguaggio. Se facciamo leggere gli scritti di Maria a una qualsiasi delle ragazze che passano per una casa di accoglienza probabilmente ci capirà poco, o magari ci farà un sorrisino, quasi di compassione. Per forza: il suo linguaggio è diverso, il suo mondo è diverso. E noi, che pure siamo parte di questo mondo, dobbiamo interagire con questo mondo, senza diventare di questo mondo.
Non si deve confondere la tradizione con le tradizioni come si fa spesso. Non ci facciamo ingannare da una lettura devozionale dei testi e degli scritti del passato. Non inganniamo noi e gli altri convincendoci che gli scritti, che so, di san Bernardo o di santa Teresa d’Avila sono perennemente attuali, senza bisogno di “traduzione”. Non è così. Dobbiamo avere il coraggio di tra-durre.
Purtroppo quello religioso è un sistema linguistico tendenzialmente chiuso, ma se vogliamo tràdere senza tradìre è necessario fare queste traduzioni. E questo partendo proprio dalle origini, dalle nostre radici, dall’esempio di Gesù che, per comunicare agli uomini la buona novella, volle e seppe usare il linguaggio, concreto ed essenziale, dei pescatori e dei pastori della Palestina del suo tempo, piuttosto che quello, più raffinato, dei Maestri della Legge.
Terzo passaggio: valutazione. Forse il più doloroso, ma è anche quello che può davvero rendere attuale il messaggio di Maria Schiratti. Doloroso perché bisogna avere il coraggio di andare oltre le pur coraggiose scelte di Maria, di capire cosa non può più essere attuale, il coraggio di individuare ed enucleare quello che era legato alla mentalità e alla realtà socio-politica del tempo e che, per quanto conforme all’insegnamento della Chiesa di allora, non è più riproponibile senza un profondo ripensamento. D’altra parte la stessa dottrina sociale della Chiesa ha subito una evoluzione, è maturata, è cresciuta, ha trovato nuove forme espressive, adeguandosi ai cambiamenti avvenuti nella società. Nella continuità certo, ma anche nella trasformazione, nella innovazione. A questo proposito vorrei ricordare le parole nella Dei Verbum: “La tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse … Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (II, 8)
Maria Schiratti presenta, nei suoi scritti, una serie di riflessioni, di analisi dei problemi a cui cerca di dare delle risposte. Sono analisi certamente valide per quei tempi, in buona parte anche per i nostri, ma non sempre e non necessariamente.
Per esempio allora si concepiva il cristianesimo come fattore di ordine sociale. La Chiesa era parte integrante della società e ne doveva garantire la stabilità e l’ordine, finendo purtroppo spesso per porsi al servizio del potere costituito. E’ una vecchia storia, che comincia nel IV secolo, con quell’editto di Teodosio che rese il cristianesimo religione di stato. Oggi abbiamo finalmente capito le parole di Gesù: “il mio regno non è di questo mondo”.
Allora si concepiva l’evangelizzazione come indottrinamento, come catechizzazione delle masse, in perfetta continuità con il modello sviluppato dalla Chiesa medievale. Oggi sappiamo che non è così.
Allora si concepiva l’assistenza come nel Medioevo, secondo una definizione dello pseudo (per fortuna pseudo) Agostino: “Dio ha creato i poveri perché i ricchi potessero salvarsi”. Quanti ricchi, quanti nobili, quante nobili dame, allora come anche oggi purtroppo, trovavano nella beneficienza una occasione per accrescere il proprio prestigio nella Chiesa e nella società, andando fra i poveri con le insegne della loro confraternita, della loro associazione, mantenendo un distacco che offendeva la dignità degli assistiti.
La carità vera è tutt’altra cosa e consiste nel perdersi fra i poveri e i bisognosi, come Francesco d’Assisi con i lebbrosi: l’abito che indossava lo rendeva indistinguibile da coloro che cercava di aiutare. Questo significa condividere. Non regalare il superfluo, ma offrire se stessi.
Le ragioni che hanno richiesto un intervento da parte dei cattolici in difesa delle giovani donne erano allora certamente diverse da quelle attuali, ma le radici profonde che le hanno determinate sono le stesse.
Spesso alla base di tante ingiustizie, di tante sofferenze c’era e c’è la connivenza dei cosiddetti buoni cattolici, di quelli che concepiscono il cristianesimo solo come un andare alla Messa la domenica e che con atteggiamento farisaico si indignano e condannano la deriva della gioventù malata, disorientata e senza valori, salvo poi difendere i privilegi dei ricchi e dei potenti, i propri stessi privilegi, che questi problemi in realtà hanno creato e continuano a creare: è questa incoerenza di fondo, questo farisaismo pseudo-cattolico che tiene tanti giovani lontani dalla Chiesa e dal Vangelo.
Pensiamo alla pessima testimonianza resa da noi cristiani quando difendiamo la vita a parole ma poi la condanniamo con le opere, con le nostre scelte politiche, economiche e sociali; quando ci indigniamo per una ragazza disperata che decide di abortire ma poi non le diamo il necessario supporto, anche economico, per accogliere la creatura che porta in grembo.
Oggi sappiamo quali sono stati gli errori del passato e dobbiamo farne tesoro. Oggi abbiamo capito che non si tratta di contrapporre credenti a non credenti e che il male non viene da una ideologia piuttosto che da un’altra, ma dal cuore dell’uomo. La sfida è combattere lo “spirito del mondo” ed essere profeti del nostro tempo. Questa è la sfida che ha accettato Maria Schiratti, questa la sfida che dobbiamo accettare noi tutti.
Essere profeti vuol dire difendere una vita che non ha rappresentanza politica, quella di un bambino non ancora nato come quella di un immigrato clandestino; vuol dire proteggere una ragazza che fa una scelta in controtendenza di amore e non di interesse; vuol dire accogliere ogni essere umano, uomo o donna, giovane o vecchio, sano o malato, sopratutto quelli che la società prima sfrutta e poi considera un rifiuto, un pericolo, una minaccia, un problema; vuol dire insegnare e diffondere i valori cristiani non perché sono espressione di una maggioranza, di una moda o politically correct ma perché sono stati rivelati; vuol dire testimoniare con la nostra vita che tali valori non sono un giogo che Dio (o la Chiesa) ci ha imposto per renderci schiavi ma un regalo che ci ha fatto per renderci liberi; vuol dire affermare che la felicità non è quella che vogliono farci credere i mass-media, fatta di successo, di affermazione di sé, di benessere, ma quella che scaturisce dalla comunione con il prossimo, di qualsiasi razza, ceto o religione, come premessa e conseguenza della comunione con Dio; vuol dire, finalmente, far capire che questa felicità non è affatto una promessa futura, una realtà rimandata alla vita eterna, ma la conseguenza diretta e immediata di tale comunione.
Per far questo non è necessario lasciare tutto per andare in missione nei paesi del Terzo mondo. Certo, qualcuno è chiamato anche a questo, ma ciascuno di noi può essere profeta, testimone e apostolo del Vangelo nel mondo in cui vive, conservando la propria identità sociale ma lottando e impegnandosi quotidianamente in una battaglia contro ogni forma di ingiustizia, per affermare la realtà delle beatitudini: questo è, in ultima analisi, il messaggio fondamentale che possiamo “tradurre” dagli scritti di Maria.
Dunque, come si è visto, contestualizzare, tradurre e valutare non sono tecniche astruse per specialisti ma sono l’unico modo per comprendere pienamente il valore del messaggio cristiano di Maria Schiratti, separando quello che è legato al suo tempo da quello che è ancora valido e che tale sarà sempre: è questo il modo migliore per avvicinarsi a lei e per sentirla vicina a noi. E’ questo il modo migliore per renderle omaggio.
Gabriele Zaccagnini